Sia lodato Gesù Cristo; e sempre sia lodato

Carissimi fratelli e sorelle, se permettete, vorrei commentare, secondo le nostre capacità, la frase finale di questa pagina evangelica, una frase che non abbiamo mai commentato (almeno da parte mia): “Per questo ogni scriba - quindi ogni persona che si nutre della Parola di Dio - divenuto discepolo dei regni dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Ecco allora che questa parola di Dio entra in ciascuno di noi, nel nostro cuore, e il nostro cuore diventa come ciò che possiede un tesoro stupendo: il tesoro da cui il discepolo può estrarre la sapienza del Regno di Dio ed è in grado di risolvere (quantomeno tentare di risolvere) la risposta a tutti i problemi della nostra vita, di oggi e di ieri, cose nuove e cose antiche.

Alla luce della sapienza del Regno di Dio, sovente ci troviamo sospinti da un problema fondamentale, che è il problema della vita, quando ci interroghiamo sul perché di questa straordinaria realtà indefinibile e misteriosa che è la vita, la vita che assaporiamo a polmoni aperti: come mai questa vita è così labile? Così provvisoria? Quasi sembra un genio perfido che sta sopra di noi per esaltare l’esultanza del vivere, ma solo per darci poi la sconvolgente tragedia del morire, finché il sole risplenderà sulle sciagure umane. E ci domandiamo: che senso ha il morire? E di più: che senso ha il nascere, che senso ha l’amore? L’amore considerato non semplicemente in quegli impulsi che hanno radici istintive e nell’istinto possono consumarsi, ma in quegli impulsi d’amore che invece lo sollevano ad un orizzonte più alto dove le affinità elettive si basano su qualcosa di diverso che non sia l’istinto e l’utilità.

Carissimi, ci sono sfere della nostra esistenza che sono così gravide di un mistero che, per quanto il progresso umano sia stato grande nei secoli, non è stato nemmeno scalfito. Noi siamo nel secolo di Einstein, ma il mistero del morire rimane come era, e non solo del morire, ma del soffrire e dell’amare. Ci sono infatti sfere dell’esistenza in cui siamo immersi che ci appartengono in proprio, come per esempio le paure, le attese, le trepidazioni che proviamo quando ci accorgiamo, per esempio, ad una malattia o a un dolore. A quel livello non le raccontiamo nemmeno; non sono dicibili queste impressioni, non sono esprimibili, se non per caso sulla base della affinità che l’amore stabilisce. Lo stesso linguaggio, il più raffinato che possiamo apprendere dagli studi e dai libri, non è adatto ad esprimere nemmeno un palpito che si prova nella paura del morire o nella esultanza dell’amare.

La società provvede a sviluppare in noi l’intelligenza, la nostra capacità provvede a destreggiarci in un mondo sempre più complicato e aumenta in noi il patrimonio di cognizione (pensate, un bambino oggi di dodici anni è una enciclopedia a confronto dei suoi coetanei di due o tre secoli fa). La rete dei flussi informativi ormai ci carpisce totalmente, dandoci anche le emozioni della partecipazione simultanea degli avvenimenti del pianeta; non importa in quale latitudine avvengano (pensiamo agli ultimi avvenimenti dell’Algeria, del nord dell’Africa, delle sponde del mar Mediterraneo).

Resta tuttavia una zona solitaria dove siamo smarriti, fragili e precari come nei tempi antichi, come nei primi momenti in cui, nel pianeta, un animale cominciò a ragionare e a riflettere. Queste sfere misteriose, in cui nella maniera più imprevedibile siamo spesso rigettati con violenza, sono quelle in cui occorre assolutamente la Sapienza del Regno di Dio.

E allora dobbiamo guardare nel nostro cuore perché la Sapienza non si impara: la sapienza è una qualità dell’essere che si ha per dono innato oppure si acquisisce attraverso un processo di generosità interiore, cioè attraverso l’amore. S’impara, sì, s’impara anche ad amare, anche se è vero che l’amore precede ogni nostra decisione. In questa sfera della Sapienza del Regno di Dio, hanno senso le parole del Vangelo. Certo, quello del Vangelo è un linguaggio sapienziale, non è un linguaggio scientifico, filosofico, storico (a questi livelli il Vangelo è fragile). Facciamo un esempio, quando Gesù dice “Se ti danno uno schiaffo, porgi l’altra guancia”, dice una parola che a livello della ragione non ha alcun senso, eppure sentiamo che in quella parola c’è una indicazione di sapienza, la Sapienza del Regno di Dio, non del tutto traducibile in norme giuridiche, anzi, in norme etiche di comportamento, perché tutto viene rimesso alla libertà creativa del soggetto, di ciascuno di noi. La verità del Vangelo è profonda; è quella ad esempio che Gandhi comprese quando disse “E’ sapiente rispondere all’offesa con l’amore”. Non chiedetemi però di renderne conto con il linguaggio a livello della razionalità, non so proprio cosa dire. Perché se noi permettessimo ai violenti di proseguire indisturbati il loro comportamento, incontrando guance che si offrono ad ogni angolo della strada, non so che cosa avremmo nel mondo.

Tuttavia c’è un’altra possibilità per l’uomo, la cui evidenza è di altra natura, in cui si entra per libera scelta e non per imposizione. Ecco perchè la fedeltà al Vangelo non si impone. Se si toglie questo clima di libertà nel rispondere, tutto diventa inaccettabile. E allora riconosciamo e riusciamo a capire: il Regno di Dio è questa diversa dimensione in cui già fin d’ora possiamo entrare se siamo sapienti scribi e possediamo il tesoro della parola e della scienza di Dio. Se del Regno di Dio, faccio, per esempio, la raffigurazione del paradiso futuro, deformo anche qui il vangelo in un linguaggio utilitaristico e conforme all’istinto. Non si deve descrivere il paradiso, eppure si è fatto e si è fatto per rendere più accettabile l’annuncio, ma così si è abbassato l’annuncio a livello delle concupiscenze. Ma come deve essere bello il paradiso sotto il profilo delle nostre raffigurazioni! Se si descrive l’inferno in modo da far paura, si ottiene un effetto, certo!, nel cuore della gente, nel mio cuore, però si snatura l’intero messaggio.

La conoscenza sapienziale è diversa: è la conoscenza che viene concessa, per opera dello Spirito Santo, nel cuore del discepolo del Regno di Dio. Nella mia fede, so che lo Spirito riempie la Terra; lo Spirito è in tutti e io dovrò giudicare dai frutti, miei e degli altri.

Per questo anche noi dobbiamo chiedere la Sapienza del regno di Dio. E la Sapienza, abbiamo detto, non s’impara all’università, non s’impara passando i giorni sui libri: s’impara lasciando crescere in noi, come un lievito, questa infanzia amorosa, questo modo di guardare alle cose senza utilitarismi, senza appetiti, senza desideri di prevaricare, ma con una richiesta umile di amore, di partecipazione al mistero della creazione, sia nelle sue cadenze negative terribili sia in quelle positive ed esaltanti.

E allora, chi è il discepolo del Regno (e dovremmo essere noi)? Il discepolo del Regno è colui che ha la Sapienza, è colui che quindi ha la gioia, che è diversa dalla gioia di cui parla il codice linguistico normale: è la gioia che può rimanere presente perfino nell’ora del Getsemani quando tutto è buio. E allora ciascuno di noi vive la speranza che in quel momento, in quell’ora, la gioia del Regno sia veramente la nostra luce. E così sia.

Don Enrico Vago