Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, a Dio che è, che era e che viene. Celebriamo insieme oggi la solennità augustissima di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo mistero è stato definito in modo solenne “una natura e tre persone” nel concilio di Nicea nell’anno 325.

Quando celebro il mistero della Trinità, mi accorgo come in questo mistero c’è un impulso a riprendere il movimento interiore, a rimettermi in moto, perché lo stesso fatto di confessare che Dio è Uno e Trino mi obbliga a realizzare, in una specie di permanente circolarità, un punto di riferimento che rischierebbe di bloccarsi con rigidità. Sono convinto, ad esempio (stiamo attenti a quello che andiamo dicendo: è una verità molto difficile), che una limitazione storicamente grave della nostra fede cristiana sia dovuta alla concentrazione nel Figlio, in una specie di ipertrofia cristocentrica, che ha impedito di vedere il Padre, e di vederlo a prescindere dal Figlio, come una realtà anteriore alla rivelazione cristiana. Proviamo a pensare a come si manifestava Dio al mondo prima della Incarnazione, storicamente avvenuta qualche migliaio di anni fa. E per tutti i secoli che ci hanno preceduto, qual è la forma con cui Dio si è manifestato all’uomo, alla creatura, alla creazione intera, se non attraverso la personalità del Padre?

Se mi concentro su Cristo come unica verità assoluta, e poi guardo il buddista, l’induista, il totemista (per parlare di forme religiose diverse dalla mia), li considero nell’errore, lontani, nelle tenebre. Ma - mi domando - non sono tutti nella casa del Padre? Non è forse vero che la creazione intera è la casa del Padre? Allora chiunque vi vive dentro, per diverso che sia da me, è intanto nella casa del Padre. Io sono obbligato a ricordarmi i milioni di anni che mi precedono, le ecatombe di specie umane e pre-umane passate nella storia quasi senza senso, come le foglie in un turbine e mi fermo a guardare gli spazi infiniti.

Mi domando: che cosa vuol dire questa paternità divina? Parto da questo a priori, confesso questa paternità, però non la celebro, non la esalto con i dati in mani perché è per fede che credo che c’è un Dio Padre, che è il principio delle cose ed è una pulsazione d’amore. È un atto di fede, non è il punto terminale di una dimostrazione. Quando confesso che c’è un Dio Padre, confesso che l’universo in cui abito è la dimora del Padre e che tutte le creature, per diverse che siano, sono dentro questa chiesa del Padre. Questa è la mia prima professione di fede, che però non deve essere data come se fosse ovvia né riempita da contenuti rappresentativi come quelli di ieri, perché devo confrontarmi con una umanità la cui storia è sterminata.

I cristiani che accettarono la decisione di Nicea (la definizione del mistero) erano convinti di essere al 4325° anno della storia umana, una misura da archivio familiare, una storia breve, anzi brevissima; noi dobbiamo misurare la nostra storia con milioni di anni e rintracciarne l’archivio nei relitti fossili. È una diversa situazione la mia: la paternità di Dio è un atto di fede, non così semplice come era quella dei miei padri. Devo tener conto di questa mutata dimensione del mio spirito, perché in ciascuno di noi - ricordiamoci - vivono tutti i milioni di anni del passato; le nostre strutture genetiche sono come un codice in cui si è trascritta fisicamente, per un processo di informazione oggettiva, una storia sterminata. È in questa fedeltà infedele che devo ripetere la mia fede in maniera da abbracciare tutte le creature.

Eccoci allora al pensiero dello Spirito Santo. Quando parlo dello Spirito Santo, non parlo soltanto della potenza invisibile che agisce nell’intimo nostro: dobbiamo pensare alla forza con cui il Padre realizza il suo disegno di creazione. È un nome simbolico lo Spirito Santo per alludere a questa potenza divina in quanto creazione permanente: lo Spirito Santo è la forza del Padre che ha creato e che ogni giorno continua a ricreare il mondo, a ricreare me, a ricreare ciascuno di voi. Perché, altrimenti, la fede nella chiesa del Padre, mi ricondurrebbe alle origini stabilizzando in me i meccanismi nella fedeltà retrospettiva; una specie di fedeltà a ciò che è stato fatto, che è stato creato. A me questa fedeltà retrospettiva è proibita in quanto lo Spirito è Creatore di tutti i momenti della vita: entra cioè in me con un principio di perenne cambiamento.

Allora questo bisogno di rompere la gabbia rappresentativa per rendersi aperti a tutto ciò che avviene anche altrove è un bisogno potente, alimentato dallo Spirito Santo. Ma ricordiamoci che lo Spirito crea, ma anche distrugge, in quanto non si può porre una nuova misura senza che la vecchia scompaia. Allora la mia fede nello Spirito Santo non è una ripetizione mnemonica del Concilio di Nicea: è l’impegno a non essere, dentro di me, chiuso a questo afflato creativo di ogni momento, a questa necessità imperiosa di riprendere le misure sui fatti e a rompere la barriera tra i fatti e me, creata astutamente dal principe di questo mondo, che mi occulta ciò che avviene nelle periferie delle città e mi dà assordanti notizie di quello che si fa nel palazzo del potere.

E allora, come posso lasciarmi imprigionare da questo Spirito nuovo Creatore? La fede secondo lo Spirito è potente, è creativa, non teme le nuove dimensioni.

Se poi parliamo del Figlio, se confesso il Figlio, lo devo fare dopo averlo liberato (dicevamo in precedenza) da quella ipertrofia idoleggiante che ci porta a dimenticare che Egli è Dio, ma è anche uomo come noi, tribolato, perseguitato, colpito dal potere. Noi abbiamo reso un servizio al mondo: abbiamo consegnato Gesù a Pilato per il suo uso. Infatti poco dopo Costantino, successore per così dire di Pilato, era domestico di Gesù Cristo. Cosa era accaduto? Gesù era stato sottratto in quei secoli alla sua umanità e fissato in una divinità deduttivamente pensata in modo metafisico, per cui Egli non camminava più nella nostra tribolazione umana.

Carissimi, se avviene da qualche parte del mondo (come avviene oggi, grazie a Dio) che Gesù se ne sta nella macchia, che Gesù se ne sta in prigione, che il suo nome viene detto dai carcerati e non dai carcerieri, vuol dire che qualcosa si scompone: è il Gesù Figlio dell’Uomo (come Egli amava dirsi, per deludere i nostri impulsi eccessivamente divinizzanti). È il Gesù Uomo, Lui che è Dio.

Ritrovo allora il nesso tra il mistero della Trinità e la carne umana: Dio è ancorato nel fondo della carne umana e dentro le tribolazioni dell’uomo. Come vedete allora, carissimi fratelli e sorelle, il mistero trinitario rompe la sua bizantina fissità e torna a circolare nell’esperienza umana, torna a riprendere le misure dell’uomo. Carissimi, sia così oggi per tutti noi.

Don Enrico Vago