Quando la sveglia ruppe il silenzio dell’alba, Albert si rigirò ancora una volta nel letto maledicendo il fatto che aveva dormito troppo poco. Era rimasto a chattare fino a notte fonda. Era diventato molto veloce a scrivere e per fare più in fretta usava un sacco di abbreviazioni, alcune delle quali sembravano codici segreti di qualche spia russa. Sua madre era molto preoccupata e si domandava che senso avesse continuare a tenere gli occhi su quel benedetto schermo: «chissà cos’avranno sempre da scriversi, notte e giorno – pensava – si vedono a scuola, sul bus, in palestra, eppure sono sempre lì attaccati». Albert era molto intelligente e brillante, ma spendeva anche un sacco di tempo in giochini inutili. Aveva cominciato fin da piccolo. Papà e mamma gli mettevano il mano il cellulare fin da quando stava sul seggiolone, per riuscire ad imboccarlo. Lui si nutriva non solo di pappe, ma anche di Peppe Pig e non pig e cartoni d’ogni specie. Aveva imparato a digitare lo schermo per tirar fuori le cose che voleva, prima ancora di imparare a camminare o a parlare. Gli adulti lo avevano soprannominato Einstein – con poca fantasia direi – proprio perché sul quel potente e sofisticato giocattolo ci passava le ore come se stesse progettando un viaggio su Marte. Albert non amava quel soprannome, anzi si arrabbiava molto quando dopo avergli chiesto «come ti chiami?» e lui risposto «Albert», gli domandavano ironici «Einstein?». Sempre la solita battuta consumata e idiota. Così, anche grazie a quel nome, odiava la scienza e tutto quello che si riferiva alla scuola. Preferiva passare tutto il tempo sui giochini e sulle chat.
Ultimamente, grazie ad un amico che lo aveva mezzo raggirato, si era lasciato fregare anche dei soldi con un video-poker. Aveva falsificato l’età, aveva dato le generalità del padre e copiato i dati della sua carta di credito; così era arrivato a perdere svariate centinaia di euro. Il padre si era arrabbiato un sacco e gli aveva tolto per un po’ il cellulare, ma Albert aveva preso quel fatto con grande rabbia e approfittando della sua irreperibilità, era mezzo fuggito senza avvisare nessuno, un po’ per rabbia, un po’ per punire i suoi. La madre quel pomeriggio e quella sera... e quella notte... s’era presa una tal paura che, una volta ritrovato Albert – che in realtà era a casa di un amico del calcio – aveva supplicato il marito di ridargli il cellulare per poter rintracciare Albert. E così fu. Albert aveva riavuto il suo potente giocattolo e si sentiva persino fiero di averla fatta franca. Forse però in fondo all’anima si era anche reso conto che la distanza dai suoi affetti più cari era aumentata, ma si consolava maldestramente estraniandosi in nuovi percorsi e meandri della rete: altri giochini, altre ricerche, altre chat. Comunque quella mattina, alla quinta ripetizione della sveglia, finalmente si alzò, non per dovere o per coscienza, ma perché sua madre irruppe nella camera come un sergente di caserma urlando esasperata, minacciando non so più quale punizione.
Certo che in terza superiore essere conciati così non è molto onorevole e Albert se ne rendeva anche conto. Anche a scuola era distratto e svogliato. Studiava per obbligo e senza nessuna passione. Spesso copiava i compiti in classe. Aveva scoperto un sito che era una vera miniera di informazioni per risolvere da matematica ad inglese senza fatica.
Però quella mattina camminando verso la fermata del bus si sentiva più stanco e triste del solito. Strano perché era una frizzante mattina di inizio maggio ed anche se il sole era sorto da poco, il cielo era assai luminoso. Lui camminava estraniato dal traffico cittadino con le cuffie nelle orecchie e non so quale rapper vomitava a tutto volume parole su parole che non facevano un discorso. Ricevendo l’ennesima notifica, decise di estrarre il cellulare per rispondere. Il cielo terso gli sembrò un fastidio nel riflesso troppo luminoso del vetro del suo touch screen. Mise un piede giù dal marciapiede e come saltando su una mina, si trovò scaraventato sopra una montagna di sacchi di spazzatura. Per fortuna quei sacchi avevano attutito la caduta, ma quando tentò di rialzarsi sentì un dolore lancinante all’anca. Un grosso tizio untuoso e tatuato gli porse un braccio peloso per rialzarlo. Era il camionista che l’aveva colpito: furibondo, gridava in qualche strana lingua dell’est qualcosa di incomprensibile. Albert oltre al dolore, togliendosi le cuffie, provò davvero paura e abbozzò per un istante uno sguardo risentito, ma davanti a quell’ammasso di lardo tatuato e urlante, pensò che in fondo non valeva la pena rischiare di prendersi anche un ceffone. «Niente, niente, non mi sono fatto niente, è tutto ok! Non si preoccupi, è colpa mia». In realtà quell’energumeno stava facendo il furbo, perché certamente Albert non aveva guardato niente e non aveva sentito niente, ma era sceso dal marciapiede praticamente sulle strisce!
Albert pensò che i suoi l’avrebbero sgridato o peggio e preferì sgattaiolare come un gatto in tangenziale, piuttosto che pretendere le sue ragioni. Passanti e astanti che avevano visto tutto, non fecero nulla di così convincente e quando Albert insistette dicendo «Niente, niente, va tutto bene», mollarono subito la rivendicazione dei diritti civili dietro un colpevole quieto vivere. Il camion ripartì sgasando e fumando nero; il traffico riprese a scorrere ed Albert per la prima volta, forse davvero per la prima volta nella sua vita, si sentì solo.
Mise meccanicamente la mano in tasca per cercare il telefono e raccontare tutto a qualche amico, ma non lo trovò. Percorse i fili delle cuffie che penzolavano sulle spalle, ma allo spinotto non c’era collegato nulla. Si sentì smarrito e molto dolorante. Riattraversò zoppicando la strada e si mise a raspare tra i rifiuti in cerca del suo prezioso gadget. I sacchi puzzavano di marcio e si sentì un vero pezzente. Montò la rabbia e fu proprio la rabbia dell’impotente. Si guardò in giro e... «Eccolo, maledizione!» Era ben lontano e mezzo incastrato tra una cassetta dell’Enel ed un muretto. Lo raccolse e... «Andato!» disse rabbioso e rassegnato. Il vetro era praticamente sbriciolato; non tentò neppure di accenderlo, tanto quel che rimaneva del suo cellulare non si sarebbe mai riacceso.
E ora che fare? Tornare a casa? Andare a scuola? Era un rischio troppo grande; e poi come fare quel compito in classe senza usare il solito trucco? Chi avvisare? E soprattutto come? La scusa dell’incidente su una “giustifica” avrebbe retto alla grande, ma fu preso anche da una grande desolazione e voglia di scappare.
Aspettò l’autobus per un po’, ma quando giunse, era così pieno che il dolore all’anca lo convinse che non valeva la pena di provarci. Albert, inebetito e solo, pensò che forse camminando, il dolore sarebbe diminuito e così fece. Si mise a camminare. Camminò per tanto, ma non verso casa o verso la scuola, verso il nulla o forse verso se stesso, in cerca di un qualcosa. Entrò in un parchetto giochi e buttando la zaino a terra si sedette su una panchina.
«Eccomi, sono solo – pensò – Nessuno sa di me, nessuno sa dove io sia». Strana vertigine e strano smarrimento: un misto di voglia di piangere, di stare solo e di cambiare tutta quella mattina storta e magari anche di dare una svolta. Si sdraiò lentamente sulla panchina e guardando in su, s’accorse del cielo; non era male! Se avesse avuto il cellulare avrebbe guardato quel cielo attraverso la telecamera per postare una foto, taggare o chattare... ma gli alberi tesi verso il cielo erano riposanti e si fermò a guardarli. Quella mattina surreale era più reale di tanti momenti virtuali e deprimenti che aveva già vissuto.
Stava quasi per addormentarsi, quando una voce ruppe quell’inquieta solitudine. «Albert!» «Nonno! Che fai qui?» «Lo chiedo a te. Non sei a scuola?». Albert cominciò un po’ di racconto e poi domandò: «ma tu come mai sei qui, nonno?» «Vengo spesso qui, si sta bene, c’è pace». «Ma non ti senti triste, ora che la nonna non c’è più?». «Sì, Albert, mi sento triste, ma quando sono qui o nel silenzio, i ricordi diventano ancora così reali e li rivivo, con nostalgia e piacere: 56 anni di vita insieme sono tanti». I due parlarono a lungo. Per la prima volta. Albert si sentì grande, capace di capire. Era un dialogo tra uomini; così diverso da certi discorsi spezzettati su WhatsApp.
Poi un pensiero come un lampo: «nonno, bisogna avvisare i miei! Chissà adesso che menate che mi faranno. Hai il cellulare?». «Sì, ce l’ho, ma non serve. L’ho già avvisata io» «Come, quando?» «Quando sei entrato qui – rispose sorridendo soddisfatto il nonno – l’ho avvisata io la mamma. E’ lei che mi ha mandato a cercarti. Aveva ricevuto il messaggio automatico dalla scuola perché non sei entrato e subito ha pensato che tu avessi bigiato o che ti fosse capitato qualcosa... eh, queste scuole tecnologiche... non sfugge niente». «E come hai fatto a trovarmi qui?». «Albert, ho fatto il negoziante per 50 anni in questo quartiere e tutti sanno che sei mio nipote. In negozio c’era anche la foto della tua prima comunione e quella della Cresima con me che ti facevo da padrino. E’ bastato chiedere se qualcuno t’avesse visto e Gino, il parrucchiere, mi ha dato una dritta». «Ah caspita a voi non sfugge niente, mica alla scuola! – disse meravigliato e divertito Albert – Siete peggio dei servizi segreti!». Il nonno lo guardò bonario: «Già, è vero, ma noi non siamo mai soli». Albert abbassò lo sguardo e si sentì capito. «Nonno, posso restare a pranzo da te?».
#DinDonCafé
dsb
Audio per i non vedenti: https://youtu.be/25LBnlrDmUg