Non entro nemmeno nel merito di ciò che ingenuamente ha fatto don Mattia, ma vorrei ragionare sulla bagarre mediatica a cui tutti siamo appesi.
Povero don Mattia. Pensate! Per tutta l’eternità, facendo una ricerca del suo nome su un qualunque motore di ricerca – in molti lo chiamano googlare – comparirà la valanga di parole, insulti, indignazione, commenti che sono seguiti al diffondersi del video e delle foto della sua Messa in mare. Anche queste mie righe, sempre che io non decida di eliminarle dal mio sito, avranno lo stesso destino. Per sempre! Una gogna che sarà sempre lì, incancellabile. Potrà educare i ragazzi, dar da mangiare ai poveri, visitare i malati, amministrare un milione di sacramenti, ma quello che si dirà di lui sarà legato a quell’infausto giorno di luglio nel quale imprudentemente ha celebrato il divino sacrificio di Cristo in costume, a petto nudo, con un materassino gonfiabile come pietra sacra.
Per usare le parole di un grande maestro[1], “in questi ultimi tempi il guscio si è rotto, ma si è rotto male. Si è rotto non per la dilatazione della coscienza, ma per una irruzione meccanica delle cause della paura dentro il perimetro del Panopticon”
Per chi non è pratico di questa immagine, la spiego subito. Il Panopticon è il nome dato ad un carcere ideale. Il concetto della sua progettazione è di permettere a un unico sorvegliante di osservare tutti[2] i soggetti di una istituzione senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no.
Ricordate quell’occhio che campeggia nella navata maggiore delle nostre chiese barocche a chiaro monito per il fedele ed il consacrato, quel “Dio ti vede” al quale devi rispondere con la tua coscienza? Ecco, c’è stato un tempo nel quale ci si voleva liberare di questo inopportuno guardone che incuteva timore e violentava l’anima ed il suo libero arbitrio.
All’opposto, nella spettacolare fantasia di Tolkien, il grande occhio sempre all’erta è posto là dove c’è “il male che non dorme mai”. Stravolgimento e critica geniale a certe forme di un cattolicesimo già in decadenza ad opera di un uomo di grande spiritualità evangelica dei primi del ‘900.
Forse quel tempo non è del tutto finito e qualcuno ancora oggi desiderando liberarsi di questo sguardo indagatore sia esso divino o demoniaco, butta via la chiesa di mattoni, quella di persone, tutta l’istituzione, tutte le religioni e, se gli va, se la vede a suo piacere con Dio che non avendo un volto non ha nemmeno occhi. E’ la fine delle religioni, di tutte le religioni.
Ma oggi l’occhio che tutto vede e giudica è la rete. Nella rete è la sete insaziabile di notizie pruriginose fonti di lucro a fare di ogni fatto la buona occasione per sacrificare sull’altare della nuova religiosità tecnocratica chiunque per un qualunque motivo. Non importa nessuna morale, l’importante è che ci siano click perché ad ogni click si guadagna un soldino. Ogni morale è buona, anche quella più immorale, perché ogni morale comunque reagirà con un click a ciò che la sfiora, la tocca, la solletica o la stupra.
“Non c’è, ormai, – continua padre Balducci – nessun occhio che ci sorvegli con tanta efficacia da darci l’impressione che siamo noi a sorvegliare noi stessi. L’area geografica del Panopticon si è estesa a tutta la terra, ma l’ideologia di sorveglianza” – continuo io – non è più legata ad un sorvegliante che ti vuole più o meno bene e che, anche incutendo timore, ti raddrizza la schiena e ti propone una revisione etica. Oggi il guaio non è più che cosa fai o a chi, se in privato o in pubblico, ma se finirai o no sui social, sui giornali, sui giornaletti on-line infestati di pubblicità, sulla chat di classe o al TG della sera.
Il guscio si è rotto, ma si è rotto male e siamo caduti in una cella apparentemente senza sbarre – perché il mito della tecnologia è quasi divino ed infinito – ma perfettamente perimetrata da una rete fittissima che non lascia scampo. Quella rete che doveva metterci in comunicazione ci ha pescato e ci porta alla deriva. Sempre più a fondo.
La Chiesa, perennemente immersa più nel mondo che nella profezia, non fa da contraltare. La Curia di Crotone, dopo tre carezze a don Mattia, ci tiene a precisare termini e confini della celebrazione citando documenti, papi e canoni. Ovviamente con una lettera pubblica, mica con una telefonata! Quella di Milano, idem, ribadisce. Entrambe come a mettere le mani avanti prima che l’onda mediatica le travolga, perché è questo che conta! Con l’interessato forse si parla dopo, per intanto affrettiamo il comunicato che rimbalza sui media. Qualche bravo pastore una telefonata la fa; qualche confratello due lacrime le condivide. Ma mentre la nave affonda, mediaticamente buttiamo a mare Giona, perché si plachino le onde e possiamo salvarci e tornare alla calma. Ognuno ha pregato il suo dio e don Mattia, mentre affonda, dal ventre del pesce chiede scusa.
Ci fosse uno che si domanda: “ma io dov’ero?”
Noi Chiesa non siamo affatto tutti nella stessa barca sul mare in tempesta dove i marinai si affannano insieme a sgottar fuori l’acqua e dove possono sempre ricorrere a Cristo addormentato a poppa gridandogli tra il concitato e il furibondo: «non t’importa che moriamo?»[3]. No! Siamo invece tutti nella stessa rete e sempre più sottacqua! Così mostriamo il colpevole credendo di tirarcene fuori. Succede sempre! In qualunque scandalo ecclesiale dalla pedofilia, agli eccidi delle scuole residenziali, al prete alcolista, come ratti in fuga dalle stive, ognuno cerca la sua personale salvezza dicendo “io non c’entro”.
I cattoliconi puristi del rito gridano allo scandalo. I preti irritati dicono la loro e condannano il confratello al giudizio del popolo. Altri più moderati domandano cosa si insegni nei seminari. Altri più aggressivi insultano. I catastrofisti esperti dell’Apocalisse proclamano un avvento misto tra furie divine e potere del demonio. Poi ci sono gli strenui difensori perbenisti: quelli del “ha fatto bene” “bravo” “bis” “ce ne fossero di preti così”. E poi eccoli: tutti sui social, tutti che litigano, si insultano, che si scomunicano gli uni gli altri. Come un branco di barracuda si fanno a pezzi tra loro. Tutti stretti nella stessa rete sotto lo sguardo del mondo.
Ha un bel pregare Gesù: «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato»[4]... No, anzi se il mondo non crede, io non c’entro, io sono perfetto, io sono il modello; la colpa è sua, è loro, è sempre di qualcuno che non sono io.
Tutto sotto lo sguardo vigile gli uni degli altri; perché il Panopticon ha cambiato volto, ha cambiato occhio. Ora ne ha miliardi di occhi: tanti quanti sono gli imbrigliati nella rete. Gli uni a guardarsi addosso agli altri. A puntarsi il dito. A farsi a pezzi furiosi.
Persino coloro che si ritengono religiosi nemmeno si rendono conto che la religione che professano è tutta un’altra, è quella della rete. Non ci si converte a Cristo, né a nessuna forma spirituale tra quelle esistenti o desiderabili, dato che ciascuno è caduto nell’evento drammatico della decadenza nella relatività.
Nella prima lettera ai Corinzi[5], Paolo ci parla della Chiesa come ad un corpo solo fatto di molte membra dove se il membro più fragile soffre, tutte le membra soffrono; ma eccoci qui a dichiarare che mentre quel membro dolorante per la sua inavvedutezza o il suo errore geme e soffre, le altre membra se lo sgroppano di dosso.
Ecco perché la Chiesa naufraga, perché non è Chiesa, non è comunità, non è comunione. «Come può un regno diviso in se stesso reggersi?»[6] chiede retoricamente Gesù a coloro che credono di sapere chi sia il satana. Il satana siamo noi! Noi che accusiamo gli altri, i fratelli. Noi che, ferventi fedeli della religione della rete, li mettiamo alla gogna perché si scateni contro di loro l’odio e vengano espunti dalla comunità. Noi ferventi guardiani odiosi dei peccati altrui che crediamo di poter accusare l’altro senza pagarne il fio anzi elevandoci a veri difensori della persona di Cristo, stupidi eroi dalla tastiera facile e dalla lingua mortifera.
Ecco perché la Chiesa naufraga, perché lo sguardo che abbiamo su Mattia non è quello di Gesù. Gesù certamente ha stima di lui; talmente tanta che si lascia transustanziare con fiducia anche sopra un materassino di gomma, senza gloria, senza paramenti, senza l’esecuzione perfetta di una rubrica. Gesù vuole così tanto bene a Mattia che si lascia fare da lui!
Tanto Gesù ha già subìto il più grave abuso liturgico della storia di tutte le religioni: sputato, frustato, inchiodato ed esposto completamente nudo alla vergogna di tutti. Mattia o io non potremo mai fare peggio di così; ecco perché si mette nelle nostre mani immonde o nelle nostre chiese piene di insolenze verso i fratelli, ma tanto riverenti verso Dio: perché Gesù vuol più bene agli uomini che a Dio e permette loro di bestemmiare senza ucciderli, come invece facciamo noi da sempre con gli eretici.
Il guscio si è rotto, ma si è rotto male. Si è rotto non per una dilatazione della coscienza... e mentre io dovrei diligentemente dire che dobbiamo imparare a celebrare bene, molto bene, capisco che per imparare a celebrare bene il mistero di Dio, dobbiamo ancora imparare a celebrare bene il mistero della storia di un uomo.
#parolebuone 28.07.2022
[1] Balducci Ernesto, L’uomo planetario, Giunti, p. 168.
[2] Opticon: osservare; Pan: tutto.
[3] Cfr. Mc 4,38.
[4] Gv 17,21.
[5] 1Cor 12,12-27
[6] Mc 3,22-26