Inserisco in questa piccola sezione alcune riflessioni sul mondo virtuale in genere. Sia riflessioni mie che di altri.

Molti infatti sono i genitori che chiedono lumi sulle autorizzazioni da dare o non dare ai loro figli; poi ci sono i giovani che si confrontano, anche animatamente, sull'opportunità di blog, chat e web-site.
Per non parlare di ragazzi che scalpitano per entrare in questo mondo liquido dietro il cristallo del monitor.

Come sempre spero che serva, soprattutto a riflettere e mettere su ogni cosa una parola buona.

 

Countdown to blackout

Venerdì 9 ottobre 2009 - ore 13.23

Ritengo che questo strumento (facebook) non sia più uno strumento, ma un laccio. Le persone pensano di raggiungermi e di essere raggiunte con mezze frasi buttate lì, con i "mi piace"...

Manca il tono della voce, manca lo sguardo, manca l'abbraccio, manca la schiettezza. No, non mi sto divertendo, sto riflettendo. Guardo gli spazi dei ragazzi, vedo quello che scrivono, quello trovano, le volgari foto che pubblicano, le parolacce che approvano... non mi piace, non mi piace più, non piace per niente.

Inoltre io sono un educatore e forse il fatto che in questa stupida città virtuale ci sono anch'io può dar loro modo di pensare che sia una cosa buona...

Tempo fa ho gettato il televisore dalla finestra.
Poi è toccato a Msn.
Ora tocca a facebook.

Mi resta sempre la realtà reale!
Chi mi vuole potrà incontrarmi lì,
ci guarderemo negli occhi e magari insieme guarderemo lontano.

 

L' amicizia prima di Facebook

di Alessandro Baricco

Quel che ricordo dell' amicizia ai tempi in cui non esisteva Facebook e nemmeno la Rete, le mail, gli sms l'ho scritto in Emmaus, nell'amicizia di quei quattro ragazzini diciassettenni che muovono il romanzo.

I libri non sono mai, stupidamente, la verità, ma è vero che noi eravamo più o meno così, come quei quattro. Una cosa che ricordo bene, ad esempio, è che pensavamo l' amicizia come il prolungamento di una fede: fosse religiosa, come nel nostro caso, o anche laica, o politica, non importava. Anche il Toro andava bene. Ma era importante quel credere comune, non sarebbe bastata la simpatia né qualsiasi altra prossimità sentimentale. A tenerci uniti era la certezza che stavamo combattendo insieme una qualche sotterranea guerra, di cui poi non capivamo neanche molto. In definitiva negli amici cercavamo meno un sollievo alle nostre solitudini che non l'iscrizione a un qualche eroismo collettivo. Ciò dava ai legami un tratto di necessità, o forse di sacralità, che ci faceva impazzire.

Vi trovavamo una fermezza, un'inevitabilità, che non trovavamo altrove. Va da sé che non c'erano amici che non lo fossero per la pelle. Come i quattro di Emmaus, da ragazzi costruivamo le amicizie su una bolla di dolore. Quando non c'era, ce la inventavamo, credo. Ma sempre ci si riconosceva a partire da una ferita, e ci si voleva bene - e quanto - scambiandoci il segreto della nostra tristezza.

Ne sapevano poco le nostre famiglie, e niente il mondo: ma lo spazio di quel penare, che tenevamo segreto, dettava il perimetro di una luogo riservatissimo a cui proprio le amicizie, e solo loro, accedevano. Così essere amici significava condividere un segreto. E scambiare malinconia. Non voglio dire che fossimo depressi o pateticamente romantici (magari lo eravamo anche un po', ma non è quello il punto), voglio dire che quando cercavamo il massimo della vicinanza ci riusciva più facile farlo entrando nell'ombra dei nostri pensieri cupi, perché lì trovavamo la perfezione. L' allegria era meno interessante. Della felicità non ci accorgevamo.

E poiché non esisteva Facebook, essere amici significava fare delle cose. Non parlarne, o raccontarle: farle. Se cerco di ricordare momenti precisi che significassero amicizia, vedo scene in cui sempre stavamo facendo qualcosa. E mai in casa. Esisteva un nesso preciso tra l' alzare il culo per andare a fare cose e il vivere le amicizie. Anche quando ci scrivevamo, era una cosa particolare, accadeva di rado, e allora una lettera era molto più un fatto che un modo di comunicare. Era un gesto. Le telefonate interminabili (ciò che di più vicino riesco a immaginare al chattare odierno) ce le tenevamo per le fidanzate: tra noi sarebbe stato ridicolo. Parlavamo molto, naturalmente, ma era sempre roba cucita in un gesto, e tempo legittimato da altro tempo, speso in un qualche lavorio.

Ci sarebbe parso tremendamente vacuo frequentarci via computer. Non avremmo saputo cosa dirci. Quando invece anche solo il "tornare da giocare a pallone" diventava uno spazio perfetto, di camminate memorabili, e parole a lungo covate.

C'entravano il sudore addosso, le scarpe slacciate, e il pallone, sporco da far schifo, tra le mani, e farlo rimbalzare. Una finestrella su uno schermo, quello ci sarebbe apparso come un ripiego inspiegabile. Tutto ciò ci costringe a concludere spesso, usando un termine che è tramontato, che quelle erano amicizie profonde.

Tacitamente, intendiamo dire che quelle di Facebook non lo sono.

Ma la realtà non è così semplice. Se un termine tramonta un perché ci sarà, e l'estinguersi di un profilo certo, per la parola profondità, qualcosa deve insegnarci. Era il nome che davamo a una certa intensità, ma era un nome probabilmente inesatto. Alludeva a coordinate (superficie profondità) che il mondo quasi certamente non ha: oggi appaiono come una semplificazione un po' infantile, e stanno all'esperienza reale come un cartone sta al 3D.

Strumenti poveri, verrebbe da dire. Così ci resta la memoria di una certa intensità, ma pochi nomi certi per nominarla con esattezza. Per questo trarre delle conclusioni che non siano da bar sembra difficile. Io posso giusto annotare un'osservazione che oltre tutto ha il limite di riferirsi alla mia esperienza personale: in genere la "profondità" che tendo ad attribuire retrospettivamente a quelle amicizie non sembra aver influito sulla loro resistenza al tempo. Alcune se ne sono sparite, altre sono rimaste, come se una regola non ci fosse: ha tutta l'aria di essere una faccenda dannatamente casuale.

E se mi trovo ancora appiccicato addosso persone con cui tornavo da giocare a pallone, è vero che tante altre amicizie che erano analogamente "profonde" se ne sono andate con un fare liquido strabiliante, come se non avessero agganci da nessuna parte, e la benché minima forma di necessità. È bastato alle volte uno spostamento minimo, un' inezia, e già non c' erano più. Così quelle che sembravano pietre incastonate si sono svelate pietre appoggiate su qualcosa di sdrucciolevole: e la petrosità una categoria che solo nella fantasia ha un nesso necessario con la permanenza. Da giovani non potevamo immaginarlo, ma la verità è che si può essere petrosi e provvisori, noi lo eravamo. Rolling stones, come ci insegnò poi qualcuno che, senza saperlo, aveva già capito tutto.

 

fonte: Repubblica — 30 gennaio 2010 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA

 

 

Le ragioni del silenzio

Concorezzo, 2 feb 2010

Cari amici,

mi cercate e questo rivela che davvero siamo amici. Mi chiedete da tempo le ragioni della chiusura delle pagine in facebook. Qualcuno in modo più dolce, qualcuno in modo più determinato, qualcun altro in modo stizzito e aggressivo.

Credo sia chiaro a tutti che il modo con cui ho chiuso quelle pagine, dopo aver abbandonato quelle dello space di msn, abbia avuto grande risonanza perché così volevo che fosse. Non volevo cioè che questa scelta passasse sotto silenzio o sembrasse un abbandono in sordina o una dimenticanza. Volevo che si sapesse che me ne andavo e che questo provocasse una riflessione.

In buona sostanza ci sono due ragioni fondamentali.

La prima ragione

La dinamica relazionale che si instaura in fb è fallimentare. Troppo spesso e troppo facilmente gli utenti leggono distrattamente, clickano un "mi piace" oppure buttano lì mezze frasi allusive o provocatorie senza motivare, senza argomentare. Si confonde un sistema informatico con un sistema relazionale. Sistema informatico significa che dà e riceve informazioni, notizie, appunti. Un sistema relazione implica una bidirezionalità reale, un vero e proprio canale di comunicazione.

Ma qui, se da un lato sono d'accordo con Baricco, dall'altro registro un fatto ancora più grave. Mancando i termini essenziali di una relazione che sono la compresenza, la fatica e la durata; i contenuti anche se buoni vengono mediati da un canale che li umilia. Così le persone anziché incontrarsi si scontrano e tanto maggiore è lo scontro tanto peggiori sono le reazioni. Senza contare il dispendio di tempo che non conclude niente e spesso porta i toni del conflitto a livelli tali che le persone si staccano dalla "conversazione" per non tornarci più se non per una nuova curiosità ansiosa.

Che questa sia la modalità di tutti i talkshow televisivi dove ciascuno dice la sua idea gridando e umiliando l'altro per avere ragione è vero, ma poiché questo io non lo condivido in tv, non vedo perché dovrei condividerlo sulle pagine che io stesso, amante della pace e della concordia, voglio pubblicare. Suscitare un dibattito non è e non deve essere sollevare un polverone che brucia gli occhi. Dibattito implica riflessione, ascolto, pensiero, parole profonde, buone.

Fra l'altro spesso i singoli autori buttano il sasso e ritirano la mano, i fraintendimenti si sprecano e le cattiverie si sommano a sdolcinati apprezzamenti. La protezione della distanza, il filtro del monitor fa dire e fare cose che altrimenti non ci sarebbero. Non fa per me.

Senza contare il fatto che discussioni su argomenti molto seri (ricordo la RU486, l'eutanasia) si mischiano a spiritosaggini, banalità, amenità gratuite, volgarità, oscenità. Non fa per me.

Qui sta allora la critica di qualcuno a questo nuovo sito: che non abbia contropartita, non abbia possibilità di dibattito. "Perché non apri un forum?" No.

E' voluto, E' volutamente così. Infatti il luogo del dibattito, del confronto, dell'apprezzamento o della critica è vis-a-vis, è faccia a faccia; oppure attraverso una pensata lettera o una desiderata telefonata. Chi dibatte sulla scorta di una improvvisata emozione finirà col dire male cose che non ha ancora pensato bene. Le parole allora saranno ancora più povere di un pensiero che è già povero.

La seconda ragione

Ci sono troppi piccoli in rete. Loro non sono pronti alla rete, ma i loro genitori ed educatori non si avvedono dei rischi che essi corrono. E non sto parlando dei lupi nel bosco di Cappuccetto Rosso. Quelli se non altro hanno un volto e dei bei dentoni; prima di mangiare la piccola incosciente inviata da sola proprio dalla mamma ci mettono un po'.

Parlo del fatto che essi troppo facilmente possono pensare che questo strumento sia un canale di comunicazione reale. Così lasciano lì emozioni, sentimenti, paure sperando che qualcuno le raccolga. Questo potrebbe forse anche andare bene se ci fosse sempre costantemente qualcuno in ascolto. Ma disgraziatamente per loro non è così. E restano ingannati due volte: primo che quello possa essere un luogo dove parlare di sé, secondo che ci sia qualcuno capace di ascolto e di aiuto efficace.

Noi come educatori dobbiamo sottrarre e sottrarci a questo duplice inganno. Primo perché anche noi siamo tratti nell'inganno che si possa capire una persona guardando dal buco della serratura delle foto che pubblica, delle amicizie che ha, delle frasi che scrive o dei gruppi a cui aderisce. Come mi scrisse per lettera qualche tempo fa una 17enne: "lì si esagera tutto per fare colpo, è un linguaggio per parlare di sé senza farsi capire".

Così come sbagliano le mamme che sbirciano i diari dei figli o ne scorrono gli sms, anche noi dobbiamo essere rispettosi della intimità e dichiararla apertamente come tale: "scrivi lì quello che vuoi se ti fa piacere, ma io non leggerò". Noi educatori dobbiamo dissociarci sia dal guardare dal buco, che dal lasciar pensare che io così ti ascolterò. Secondo perché banalmente dovremmo passare la vita a spulciare le pagine dei nostri ragazzi per vedere se qualcuno di loro sta gridando aiuto. Ma per carità! Ma dove siamo finiti?

Se tu vuoi parlare con me, io sono qui. Le tue parole assieme al tuo sguardo o alle tue lacrime saranno per me il tuo consegnarti. Il luogo di un incontro reale, di un abbraccio che faccia sentire il calore e la forza del sostegno di cui hai bisogno. Questo avvicinamento sembra - e lo è - più difficile, ma non esistono vie promettenti che siano più facili. Facile non fa mai rima con felice.

La fatica della comunicazione tra umani è qualcosa che i nostri piccoli devono imparare. Sarà difficile comunicare con la tua ragazza soprattutto quando diventerà tua moglie, quando diventerà reale! Lontano dagli occhi lontano dal cuore, dice un proverbio. Ma quando gli occhi sono vicini, il cuore fa soffrire, perché finalmente prova sentimenti reali e struggenti, nel bene e nel male. Questi ti faranno crescere. Questa lotta dura nell'imparare a parlare di te ti farà diventare grande.

A voi genitori

scrivo qualche parola che vi lasci il sospetto di aver sbagliato a lasciare in mano questi sciocchi strumenti è chi è ancora troppo fragile per poterli adoperare, per poterli distinguere da un gioco, per poter distinguere la realtà dalla fantasia, il reale dal virtuale. Attenti a voi che non abbiate a pentirvene.

Viene di certo il giorno che ti dovrai fidare a lasciargli guidare la tua auto... ma non lasciarlo giocare con la pistola carica con la sola raccomandazione di non premere sul grilletto!

Stiamo facendo tutti quanti un sacco di errori. Tutti. Ma dagli errori cerchiamo di imparare perché altri godano della nostra faticosamente acquisita saggezza.

A voi ragazzi

faccio i miei complimenti se siete riusciti a leggere fino qui. Spero che capiate, che vi fidiate... Noi vi vogliamo bene veramente e se vi neghiamo qualcosa (e lo sapete) è per il vostro bene. Quando sarete adulti, padri, madri non abbiate paura a dire dei no ai vostri figli: li farete crescere davvero.

Buon cammino a tutti.

Spero tanto che questo sito serva a ciascuno per riflettere. A me serve tanto. Scrivere cose sensate,  meditate e condivisibili è una fatica che mi fa bene, molto più che fare click!