Metto queste parole sul mio sito nella sezione riflessioni. Non è un articolo; non vuole avere un rilievo valido per tutti. Ha solo la pretesa di essere una mia riflessione. E ci tengo a questa precisazione perché sull'argomento in questi 30 anni ne ho sentite talmente tante che credo proprio non si possa più altro che parlarne al singolare: ciascuno, inclonabile ed incomunicabile, può solo raccontare qualche frammento della sua rielaborazione. Come faccio io ora.

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Lo dicevano in Seminario e lo ribadivano ogniqualvolta si affrontava il tema dell'impegno di pastore presso una comunità cristiana:

...«Per un prete avere una comunità di appartenenza è importante, guarda che è importante!»

Ho interiorizzato questo valore tessendo - anche dentro il carnevale delle mie paure e timidezze - quante più relazioni possibili con bambini, ragazzi, giovani, adulti, famiglie, anziani... ed anche con il territorio: associazioni, gruppi, negozianti, amministratori, operatori dei servizi, la scuola coi sui docenti...

Così, fin dalla prima nomina, ho compreso quanto sia importante l'appartenenza. Ho visto come fosse possibile, grazie alla sua intelligenza pastorale, collaborare e convivere con il mio predecessore. Nel corso di nove anni ho addirittura compreso quanto fossi diventato simile a quella comunità e come quella comunità avesse molto del mio volto. "Appartenenza" è il temine giusto: soggetto agito e soggetto agente non sono più distinguibili, non nella distorta logica della 'con-fusione', ma nella reciprocità (mutuality) che sa di Vangelo. Si piangeva insieme per i dolori e si gioiva delle bellezze della vita. Amicizie e finanche legami profondi, storie e giorni amalgamati con incomprensioni e fatiche: davvero una comunità di appartenenza. Non posseduta, ma voluta e tessuta dalla vita vera.

...«Per un prete avere una comunità di appartenenza è importante, guarda che è importante!»

Dopo nove anni, mi fu chiesto (?) di lasciare quella Comunità e - attenzione bene! - di "troncare" per lasciare libero campo al mio successore. Comprensibile, pensai io. Ma quando il mio successore mi chiese un aiuto, la mia mano tesa venne condannata come indebita intromissione. Con le persone, i parrocchiani, cercai di prendere le distanze seguendo le indicazioni, e di tagliare: "perché costruiscano una nuova storia con il successore"; così mi dissero e così feci. Qualcuno capì, qualcuno meno, qualcuno protestò, qualcuno si perse, qualcuno ne approfittò.

Preso e sorpreso dalla seconda nomina, cercai di comprendere come quella comunità fosse legata al mio predecessore e ci tenni a favorire questo legame perché, anche dentro qualche stortura, mi sembrava una bella immagine di Chiesa. Eravamo spesso insieme in molte situazioni, dal campeggio alle catechesi. Mi premurai di continuare le sue intuizioni pastorali e di non negare a nessuno la possibilità di continuare cammini con lui. Mi piaceva come liberamente e fraternamente lui andava e veniva; lo invitavo per catechesi e ritiri, lo trovavo a concelebrare momenti importanti, oppure all'uscita da qualche casa dove aveva gustato non solo la cena, ma la bellezza di profonde amicizie. Capii come c'era una strada differente da quella che mi era stata proposta/imposta. Sapeva di appartenenza.

Seppur con caratteri e modalità differenti ebbi la fortuna di entrare a pieno titolo in una appartenenza a questa nuova comunità, mettendoci me stesso e calcando molti suoi passi con rispetto e umiltà.

...«Per un prete avere una comunità di appartenenza è importante, guarda che è importante!»

Dopo nove anni, mi venne chiesto (?) di lasciare questa Comunità e con mia sorpresa, mi venne data l'indicazione di "sparire" perché il mio successore etc etc. Una nuova elisione, un nuovo troncamento, ma qui con una variante imbarazzante: continuando ad abitare quel territorio. Sì, perché presi dimora in una casa privata in città, "lasciando però campo libero al successore". Proprio io che avevo vissuto sei anni di piena e simpatica comunione col mio predecessore nella prima nomina, che avevo permesso e favorito la comunione con il mio predecessore nella seconda nomina, pur abitando lì accanto, mi son fatto da parte. ...e ho perso la seconda Comunità.

Qualche amico - dirà subito qualcuno - certo! Qualche filo, ovviamente. Ma le comunità? Andate! Non un momento insieme, non una catechesi, non una condivisione della fede o della vita, un viaggio o una vacanza, solo qualche momento "canonico" dove si invitano tutti i preti che son passati di qua. Momenti imbarazzanti: "dove sei adesso don Stefano, dove abiti?" La stragrande maggioranza di persone non sapeva nemmeno che abitavo ancora in città e chi lo sapeva non capiva perché mai non mi vedesse più. Lascio all'immaginazione del lettore le supposizioni e le ipotesi di alcuni, le chiacchiere alle spalle, le strampalate dietrologie... Ma...

...«Per un prete avere una comunità di appartenenza è importante, guarda che è importante!»

Così veniamo ad oggi quando mi viene chiesto (?) di lasciare la mia "Comunità scout di appartenenza". Sì, perché per noi scout far parte di un gruppo è vera appartenenza. Si porta il nome del gruppo appuntato sulla camicia e nel cuore. Io l'ho fatto per 7 intensissimi anni anche se all'interno di una comunità parrocchiale che mi ha ignorato e marginalizzato per deliberata scelta dei confratelli preti. Ora, io posso comprendere che, per chi non è scout, capire lo scoutismo sia difficile, ma per chi è prete capire cosa sia la fraternità sacerdotale dovrebbe essere un impegno di vita.

Ebbene, tutto sarebbe niente ed il mio cammino di discepolo proseguirebbe sereno, se non fosse che mentre si fa conoscenza e si ricostruiscono anche le trame delle strutture decisionali della Diocesi, ecco che ritorna declamato il citato refrain:

...«Per un prete avere una comunità di appartenenza è importante, guarda che è importante!»

se poi questa citazione non la facesse paternalisticamente proprio chi si è adoperato per contraddirla, sarebbe meno destabilizzante. Sì perché, le comunità le ho avute eccome, ma proprio chi teorizza queste belle intuizioni spirituali, poi ti chiede o fa tuttaltro per contraddirle.

Immagino già tutti i rigiri di parole spirituali carichi "dell'importanza di lasciare", "della capacità di prendere le distanze", "della generosità nel cambiare destinazione", "dello sguardo più complessivo sulle necessità"... tutto farcito con il concetto esasperato del "celibato per il Regno che si racconta con il distacco dagli affetti", e via e via e via così. Cacofonico connubio questo: "il distacco dagli affetti" e "l'appartenenza".

La mia personale impressione è che si estraggano concetti spirituali e fondamenti antropologici a seconda della necessità. Si mescolino sostanze per alchimie strutturali difficili e traballanti, dipingendo tutto di ragioni spirituali. Forse, per non contraddire l'impianto spirituale con la pratica, si potrebbe non dire più certe cose. Sei un funzionario, un facente funzioni importanti: vai, fai, lascia, fai altro, cambia, inventa, opera, taglia, cuci... Avrebbe senso. Negli Stati Uniti la chiamano già da anni più onestamente "pastoral leadership". E ci fanno sopra anche dei corsi apposta.

Oppure un'altra strada potrebbe esserci: essere fratelli in Cristo. Ma per questo ci stiamo ancora attrezzando.

 


dsb 21.09.2023