La Chiesa che vorrei

“Una Chiesa nella quale la comunione la ricevano tutti, tutti quelli che non ne sono degni”

“Quella di papa Francesco, ossia un ospedale da campo, dove i preti hanno l'odore delle pecore e le pecore il desiderio di bene comune, unità e condivisione”

“Un luogo di rispetto e collaborazione”

“Povera, aperta all'aiuto di tutti, umile”

“Una Chiesa fraterna, marginale, libera dal potere, dove chi non ne fa parte possa riconoscere i cristiani solo da come si amano”

“Una Chiesa che faccia del mondo una sola famiglia”

“Una Chiesa in piena sintonia con il Concilio Vaticano II”

“Vorrei una Chiesa del vangelo: povera, umile, piena di stupore”

“Una Chiesa che non metta alle porte i divorziati”

“La Chiesa che vorrei? Povera, accogliente, comunicativa, amorevole, prossima”

Cari amici del DinDonCafè buongiorno a tutti!

È l'alba e tante persone auspicano l'alba di una Chiesa nuova, di una Chiesa diversa, di una Chiesa che non deluda. Molti citano papa Francesco chiedendo una Chiesa libera dal clericalismo: dal “clericalismo diretto” cioè di quegli uomini santi - tra virgolette - che dai seminari, dagli istituti biblici o canonici fomentano la tirannia dall'alto di una teologia irreformabile; esigono un'autorità insindacabile. Oppure un “clericalismo di ritorno” cioè quello di quei laici che preferiscono non pensare, non sperimentare, che preferiscono vie conosciute; fedeli che sono abituati e desiderosi di un guinzaglio; fedeli che si fanno idoli, si legano a questo o a quel predicatore piuttosto che seguire il Maestro sulle sue vie impervie.

Tutti i desideri di una Chiesa così li abbiamo ascoltati e li possiamo davvero reputare legittimi; dettati da un sogno, da un ideale puro. Sono sentimenti di una purificazione indotti anche da un pontificato che rimanda continuamente alle esigenze del vangelo. Sono sentimenti e ri-sentimenti.

Ci sono ragioni e sono serie. Ci sono questioni che sono grandi, alcune delle quali - lo sappiamo - sono persino avvilenti per la storia della Chiesa e ci fanno vergognare, ci fanno sentire a disagio.

Qual è il mio punto di vista? Molti me l'hanno chiesto ed è presto detto: anch'io sento a volte il peso di un dogmatismo teso un po’ troppo alla conservazione; una conservazione ostinata sul già dato, come se non ci fosse nulla di nuovo da scoprire. È come se la teologia avesse costruito una bellissima cornice, veramente stupenda, per un quadro: cioè per un'immagine fissa. Non lo stipite di una finestra che guarda una realtà dello Spirito che è mutevole nel corso della storia e che segue passo passo il cammino dell'uomo e lo conduce. Sento a volte che, almeno da una certa parte di Chiesa, c’è una gran paura del nuovo o dell'ignoto; non c'è nessuna voglia di avere fastidi! C'è un’ostinata ostentazione di sicurezza nel possedere una “verità tutta intera” un po’ ipostatica, ferma lì: “se stiamo lì siamo al sicuro”. Mi sembra che ci sia paura a sperimentare. Come se la nave rimanesse nel porto, in un porto sicuro e tranquillo, ma non volesse mai prendere il largo. Sento poco desiderio di strade nuove e quasi nessun desiderio di dialogare con le realtà umane presenti o affioranti, quanto piuttosto un paternalistico sempre voler insegnare tutto quello che “noi” sappiamo già, come se non ci fosse nulla di nuovo sotto il sole e soprattutto nulla di nuovo da imparare.

Un grande teologo protestante, Karl Barth, nel suo testo “Lettera ai Romani”, che fornisce davvero una riflessione profondissima, scrive:

A chi guarda le cose dal di fuori, cioè senza comprendere la forza crocifissa del vangelo, senza affetto per la vulnerabile fragilità del testimone, è impossibile negare che il Grande Inquisitore e il Poverello di Assisi appartengano a tutti gli effetti alla stessa storia del cristianesimo. Entrambi - il Grande Inquisitore e il Poverello di Assisi - parlano del Signore. Entrambi pretendono di difendere il vero cristianesimo. Eppure, il miracolo del cristianesimo è che il secondo c'è sempre e sempre impedisce - pur fra mille ostacoli - che il primo requisisca la storia del cristianesimo. Il Grande Inquisitore non può addomesticare il vangelo che rimane visibile a tutti e lo giudica implacabilmente.

Forse è un testo da riprendere anche più lentamente, però la profondità di questo testo ci porta a capire che anche Giuda diceva cose lodevoli, ma con motivazioni sbagliate. Chiedeva di tener lontana la donna che ungeva Gesù, ma per mettere le mani sul valore dell'unguento, non perché gli importasse davvero dei poveri; dei poveri non gli importava nulla.

Giuda è parte della storia del cristianesimo, ma non è lui che scrive la storia del cristianesimo. Persino fuori dal cristianesimo non si potrebbe raccontarne la storia senza di lui. Questo per noi significa davvero tanto. Questo per noi spalanca una realtà che dobbiamo prendere in seria considerazione: tutti coloro che si propongono di purificare la Chiesa strappando via coloro che la infangano mostrano di non aver capito il procedimento utilizzato da Gesù; mostrano di non aver capito che gli Evangelisti ci consegnano la storia di Giuda e di tanti altri perché hanno compreso che anche Giuda e tutti questi altri hanno avuto parte alla vicenda della salvezza. Anche oggi, paradossalmente, i traditori del vangelo - senza volerlo - ne descrivono la grandezza. Potremmo dire che - forse caso unico nella storia - è la ferita che descrive appieno il corpo e la sua grandezza. È proprio la ferita che descrive la grandezza del corpo che porta questa ferita.

Qualcuno avrà già intuito che il riferimento al Cristo risorto che porta i segni delle ferite, della cattiveria, della perfidia, dell'ostinazione degli uomini è il riferimento base. Troppi cristiani, oppure gli scettici, o anche gli antagonisti desiderano e sognano o idealizzano un corpo senza ferite, senza lividi e senza sputi. Ma chi fa così banalizza la potenza di Dio che non permette a questa violenza di vincere sulla Sua vita. Chi fa così è un “religioso narcisista” e in questo ci sono dentro tanti ecclesiastici. Chi vorrebbe una Chiesa di puri per i puri, una Gerusalemme celeste celebrata è “atterrata”, senza portare il peso del peccato, è un “perverso adoratore di Satana”. Lo dico senza timore di sbagliare: chi vuole questa discesa di una Gerusalemme che non porta il peso né del peccato, né dei peccatori fa veramente il gioco di Satana; il quale vorrebbe divorare ogni peccatore e vorrebbe che a divorarlo fossero proprio quelli che si credono credenti, così da poter divorare anche loro.

Come dice un grande teologo della nostra Diocesi, don Pierangelo Sequeri: “la ferita non è la Chiesa che ha tradito il vangelo, ma gli ecclesiastici che hanno tradito la Chiesa”.

Ci servono invece le parole di tutti coloro che si dedicano seriamente alla Parola, cominciando da se stessi a fare la Chiesa; non chiedendo una specie di asilo tranquillo nel quale poter svernare l'inverno della storia. Abbiamo bisogno di costruire relazioni non fondate sulla perfezione dell'agire, ma sulla perfezione del perdono. Abbiamo bisogno di “portare i pesi gli uni degli altri” per diventare credibili alla storia. Non abbiamo bisogno del “movimento dei puri”, dei “rosari contro”, delle condanne di questi o di quelli, ma abbiamo bisogno - da Cristo in poi - di cristiani: cioè di discepoli del Cristo risorto, ferito. Abbiamo bisogno di testimoni, cioè di martiri pronti a farsi ferire e tradire dalla cattiveria di Giuda, dalla ferocia dei soldati, dall'arroganza dei dottori del tempio; abbiamo bisogno di coloro che sono disposti a farsi tradire dalla perfidia dei Sadducei, dalla doppiezza dei Farisei e tutto questo NELLA Chiesa.

Questo coraggio non nasce dall'arroganza di chi dice di aver ragione ma non ha le ragioni dell'amore.

Non è mai mancata alla Chiesa la forza di un mistero che sa soffrire il dolore il peccato e la ferita del peccatore. La potenza della Parola che viene ispirata dallo Spirito Santo conduce i martiri, veri testimoni della fede, a questa opera: cioè a continuare l'opera redentiva del Cristo.

Il problema allora, è quanto noi siamo disposti a desiderare di essere discepoli così: feriti dall’amore per l'umanità qualunque essa sia.

Perché lo dobbiamo? Lo dobbiamo al Vangelo per smettere di predicarlo senza viverlo, ma lo dobbiamo all'umanità che spera di essere salvata; lo dobbiamo ai nostri figli perché il nostro scoraggiamento li scoraggia e non parla affatto del Cristo risorto che porta su di sé i segni della qualità del suo amore e di un amore per tutti: per coloro che avevano ragione e per i discepoli che avevano torto, per coloro che hanno tentato di difendere Cristo dal martirio - cioè dalla estrema testimonianza dell'amore di Dio.

La speranza della Chiesa è che il Risorto a cui vogliamo credere sia vero!

E allora, quale Chiesa vorrei davvero?

È quella che c'è. Quella che conosco. Quella che non mi piace. Quella che umilia il mio narcisismo. Voglio quella Chiesa che mi fa apparire debole e perdente. Quella che sanziona il mio desiderio di potere. Quella che mi chiude la bocca come “servo infedele”. Voglio quella Chiesa dove c'è posto per Giuda perché finalmente Giuda ha trovato un posto nel mio cuore.

dsb